Lezione 1
Com’ebbi a dire facendo l'esposizione del programma, in quest'anno le lezioni avranno per soggetto la Divina Commedia, considerata nei suoi rapporti col passato e col futuro, come effetto e come causa. Ma prima di affrontare questo problema, prima ancora di designarne i termini sottoponendo a un esame generale la materia del poema, sembra opportuno premettervi un'altra ricerca e considerare per quanto si può fin dove giungessero le cognizioni dell'autore in fatto di lingue e di letterature straniere.

Del latino è inutile che si parli; il greco uscirebbe dai confini della mia trattazione, ma giacché si sentono ancora di frequente esporre idee affatto sballate, mi valgo di un diritto che può parere usurpazione e ne dirò qualcosa. Perché Dante mostra di conoscere il valore di qualche parola di origine greca taluni credettero di poter sostenere che egli dovesse possedere, sia pure imperfettamente, quella lingua. Argomentando a questo modo si dovrebbe conchiudere che la maggior parte delle persone tinte in qualche modo di coltura conoscono oggi l'arabo e l'ebraico, perché sanno che vuol dire Gibilterra, Babelmandeb, e Messia. L'argomento più solido - figuriamoci che abbiano ad essere gli altri! - si cava da quelle parole di Virgilio, nel 14° dell'Inferno: (Ed io ancor: Maestro, ove si trova)

 

133 In tutte tue question certo mi piaci, \ (1 v.)

Rispose; ma il bollor dell'acqua rossa

Dovea ben solver l'una che tu faci.

Certo queste parole fanno vedere che Dante sapeva che Flegetonte designa un fiume bollente; dicono anzi che Virgilio doveva presupporre in lui una tale cognizione. Ma ricordiamoci che Dante aveva letto e studiato l'Eneide, dove è un passo che dice:

 

6. 264 Dii quibus imperium est animarum, umbraeque silentes

Et Chaos, et Phlegethon, hora morte silentia late.

 

Or bene, Servio, il commentatore famigliare a tutto il Medio Evo annota:

 

Per Phlegetonta ignem significat, unde secundum Heraclitum omnia procreantur.

 

E anche in altri autori soliti leggersi nelle scuole medioevali il nome occorreva con epiteti, che dovevano dare occasione a perpetuarne l'etimologia per via tradizionale. Per esempio s'ha in Stazio (Teb. IV,522)

 

[...] liventes Acheron ejectat arenas;

Fumicres atra vadis Phlegethon incendia volvit.

 

Dunque che Dante non sapesse di greco si deve conchiudere dalla mancanza di ogni prova ch'egli ne sapesse; per un tempo come quello non è già l'ignoranza che abbia bisogno di essere dimostrata, ma bensì la conoscenza. Se ne avesse saputo indubbiamente ne abbonderebbero gli argomenti nelle sue opere e specialmente nel Convito. Invece i libri greci di cui egli ha notizia gli sono noti unicamente per le traduzioni. Quindi per esempio a proposito della Via Lattea:

 

(II,15) Quello che Aristotile si dicesse di ciò, non si può bene sapere; perché la sua sentenza non si trova cotale nell'una traslazione come nell'altra. E credo che fosse l'errore de' traslatori; ché \\ ( 2 r.) nella nuova par dicere, che ciò sia uno ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono quelli; e questi non pare avere >?< ragione vera. Nella vecchia dice che la Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte, tanto picciole, che distignere di quaggiù non le potemo.

 

Ma avvertirò che a mio giudizio esagera il Witte quando dice che questo passo basta da solo a dimostrare che la lingua greca era ignorata da Dante: da solo, chi voglia ragionare rigorosamente, dimostrerebbe soltanto ch'egli non aveva sotto gli occhi e non poteva procurarsi l'originale del trattato aristotelico; il che in tanta scarsità di libri avrebbe potuto accadere anche a chi avesse avuto conoscenza della lingua.

Ma questo sia detto più che altro per sbarazzare un inciampo e dissipare dei dubbi possibili. Ciò di cui importa che ci occupiamo di proposito si è la questione fin dove si estendessero le cognizioni di Dante in fatto di lingue moderne. Delle germaniche non seppe nulla, o a dir meglio mostra unicamente di sapere che per affermare si valgono dell'avverbio jo (Vulg. El. I,8). Che nel numero delle razze germaniche egli metta anche gli Ungari non dovrà far meraviglia a nessuno; anche oggi, in tanta luce di civiltà e di scienza linguistica, succede di sentire il medesimo sproposito sulla bocca di gente che avrebbe il dovere di essere colta, e che realmente si potrebbe dir tale. Nemmeno dello spagnuolo ebbe notizia esatta; credeva , a quanto pare, che parlassero la lingua d' oc. Il catalano lo dovette trarre in errore. Quindi è che egli si vale della voce hispani per designare in genere le popolazioni che parlano il provenzale: lo dice espressamente nel capitolo 12 del secondo libro del trattato De Vulgari Eloquentia, dove a proposito delle stanze \ (2 v.) costituite di soli endecasillabi ha queste parole:

 
Spagna  
Hoc etiam Hispani usi sunt; et dico Hispanos qui poetati sunt in vulgari Oc. 
  In compenso aveva buona conoscenza delle due lingue delle quali a noi importa maggiormente: della francese e della provenzale.  
Conoscenza del francese Quanto alla francese ricorderò citate parole di un antico biografo (Filelfo 2): 

 
Dantes loquebatur idiomate gallico non insipide ferturque ea lingua scripsisse nonnihil (1). 

 

Brunetto E insieme torna a proposito rammentare che Dante ebbe a maestro Brunetto Latini che passò non piccola parte della sua vita in Francia e scrisse in lingua d'oïl la sua opera principalissima, il Tesoro
Tesoro Quel Tesoro che nell'Inferno egli raccomanda appunto al suo amato discepolo colle ultime parole del loro affettuoso colloquio:
  XV, 119 Gente vien con la quale esser non deggio Sieti raccomandato il mio Tesoro,

Nel quale io vivo ancora; e più non cheggio.

Che il Tesoro sia stato scritto in francese, per dirlo tra parentesi, è cosa che s'è sempre saputa da tutti; ed è strano che taluno abbia voluto dirla in questi ultimi anni come una nuova scoperta, e che qualche critico illustre abbia preso la scoperta sul serio.
 
Parigi Rammenterò ancora il viaggio e la dimora di Dante a Parigi quando egli era già esule; viaggio e dimora attestate da moltissime testimonianze, \\ (3 r.) e a cui Sigieri di Brabante deve saper grado se il suo nome è rimasto ben altrimenti noto che quello di molti altri professori anche più illustri dei suoi tempi.
  Dante dovette trovarne ancora fresca e venerata la rinomanza ( v.l. memoria); però lo colloca nel sole coi più illustri teologi:

 

X, 133 Questi onde a me ritorna il tuo riguardo

È il lume di uno spirto, che in pensieri

Gravi, a morire gli parve esser tardo.
 

Essa è la luce eterna di Sigieri;

Che leggendo nel vico degli strami

Sillogizzò invidiosi veri.
 

 
 
Letteratura Conoscendo la lingua s'intende bene che Dante ebbe a conoscere la letteratura francese in favella d'oil: letteratura per la maggior parte romanzesca e nella quale dobbiamo cercare la spiegazione e il commento per parecchi passi del poema.
Tristano Inf. V, 67 Vedi Paris, Tristano, etc.
Lancilotto  
" " ",127 Noi leggevamo
  (D'un corpo usciro XXXII, 58)

Non quelli a cui fu rotto il petto e l'ombra

Par. 16, 10 Dal voi che prima Roma sofferire,

In che la sua famiglia non persevra,

Ricominciaron le parole mie.

 
Ginevra  
Onde Beatrice, ch’era un poco scevra, 

Ridendo, parve quella che tossìo 

Al primo fallo scritto di Ginevra.

  Certo anche Dante aveva dovuto cercar pascolo più e più volte, soprattutto nel tempo della gioventù e degli amori più bollenti, nella lettura dei romanzi di Tristano \ (3 v.) e di Lancilotto.  
De V. El.Ciclo di Carlo Il ciclo carolingio. Carattere più serio. Se Dante credeva a Tristano, tanto più ad Orlando e ai paladini. 
  Però nel cielo di Marte, fra i propugnatori della fede gli sono mostrate le loro anime da Cacciaguida:  
Carlo Magno, Orlando, Guglielmo, Rinoardo  

C0 18 Così per Carlomagno e per Orlando 

Due ne seguì lo mio attento sguardo 

com'occhio segue suo falcon volando. 

 

  Poscia trasse Guiglielmo e Rinoardo

E il duca Gottifredi la mia vista

Per quella croce, e Roberto Guiscardo.

 

E Orlando >aveva dato già< luogo a una comparazione nell'Inferno:

 

XXXI, 16 Dopo la dolorosa rotta, quando, etc.

 

Della rotta era stato autore il perfido Gano, che però non è scordato nell'Antenora:

 
XXXII, 121 Gianni del Soldanier credo che sia

 
Gano Piu là con Ganellone e Tribaldello, 

Ch'apri' Faenza quando si dormia.

  Anche sono da ricordare le sepolture di Arli:  
Arli  

Inf. IX Si’ come ad Arli, ove ’l Rodano stagna,

  Si come a Pola, presso del Quarnaro,

Che Italia chiude e i suoi termini bagna, \\ (4 r.)
 

115 Fanno i sepolcri tutto il loco varo,

Così facevan quivi d'ogni parte,

Salvo che 'l modo v'era più amaro.
 

La tradizione riferiva questi sepolcri, che forse Dante aveva veduto coi suoi occhi, a una delle terribili battaglie combattute dai figlioli d'Amerigo di Nerbona contro i saraceni.

 
Lirica francese Dei lirici francesi è ricordato uno solo, che per di più entra nel numero incidentalmente, giacché se usò per lo più della lingua d'oïl, che a lui nato conte di Sciampagna era lingua materna, altre volte si servì pure del provenzale: voglio dire quegli che nel trattato di Volgare Eloquenza è detto Rex Navarriae >(I, IX; II,V stesso principio; II, VI principi di una poesia in provenzale)<, nella Commedia il buon re Tebaldo
  Ciampolo l'astuto corbellatore dei demonii guardiani della pece:
 

Inf. [XXI], 52 Poi fui famiglia del buon re Tebaldo:

Quivi mi misi a far baratteria,

Di che rendo ragione in questo caldo.

 
Provenzale  Ma ben altre traccie dello studio dei Provenzali s'incontrano nelle opere di Dante.
Importanza speciale Letteratura lirica -quindi più elevata Per cominciare dal meno citerò la canzone 

 

Ai fals ris! per que traitz avetz 

Oculos meos,et quid tibi feci, 

Che fatto m'hai così spietata fraude? 

 

Messa tra le dubbie dal  Fraticelli. Ammessa dal Witte. Descortz: che sia: Rambaut de Vaqueiras (Provenzale - toscano - francese - guascone? - spagnolo?). Possiamo raffigurarci l'unità neolatina. 

  Ma quand'anche non si volesse attribuire a Dante la canzone, abbiamo nella Commedia la prova che il suo poeta sapeva non solo intendere, \ (4 v.) ma scrivere la lingua d'oc. Arnaldo Daniello (Purg. XXVI). Si dirà di tutta la scena. È una doppia controversia di valenti poeti.  
Guiraut de Borneil Guido pone Arnaldo al di sopra di sé, e dà degli stolti a coloro che preferiscono quel di Lemos ì, Guiraut de Borneil. 
Perché prima preferito Probabilmente Dante stesso nei tempi anteriori aveva dato la preferenza a quest'ultimo, giacché lo cita più spesso nella Volgare Eloquenza. 
  Forse glielo aveva ingraziato l'aver con lui comune la materia >preferita<: la rettitudine (I, 10) (salus, amor, virtus). Ma anche Arnaldo è rammentato più volte. Egli è poeta d'amore come Beltram del Born poeta di guerra (Ib.). E Dante ammirava, a quanto pare, il suo stile oscuro, come pure doveva ammirarne i ritmi, se ne imitò la sestina, di cui il 1° esempio che si conosca è appunto quella che comincia  
Sestina  
Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra.
  (V. E. II,13).  
Beltram del Born E Beltramo che qui ho nominato, è pure uno dei personaggi che il poeta incontra nell'Inferno. 
  Cotesti trovatori popolano la sua fantasia: gli sono continuamente presenti.

 
Inf. XXVIII, 118

I' vidi certo, ed ancor par ch' io 'l veggia,

Un busto senza capo andar, sì come

Andavan gli altri della trista greggia
 

E 'l capo tristo tenea per le chiome

Pesol con mano a guisa di lanterna,

E quei mirava noi, e dicea: Ome! etc.\\ (5 r.)
 

Un altro trovatore è mostrato a Dante nel Paradiso: Folchetto di Marsiglia, del quale gli si dice:
 

IX, 37 Di questa luculenta e cara gioia

Del nostro cielo, che più m'è propinqua,

Grande fama rimase, e pria che muoia,

 

 
Folchetto Questo centesim'anno ancor s'incinqua.
  Vedi se far si de' l'uomo eccellente,

Sì ch'altra vita la prima relinqua.

 

E quando l'anima, interrogata da Dante, prende essa medesima la parola, ecco come gli rivela il suo nome:

 
Ib. 94 Folco mi disse quella gente a cui

Fu noto il nome mio, e questo cielo

Di me s'imprenta com'io fe' di lui;
 

Chè più non arse la figlia di Belo

Noiando ed a Sicheo ed a Creusa,

di me, infin che si convenne al pelo.
 

 
Vizio più comune dei poeti L'amore >che facilmente degenera in libidine è< per Dante la passione >che< predomina nei poeti: quindi le fiamme dell'ultimo girone del Purgatorio, là dove si purgano Arnaldo e Guido, devono essere attraversate anche dallo stesso poeta: 
  XXVII, 49. Come fui dentro, in un bogliente vetro

Gittato mi sarei per rinfrescarmi,

Tanto er' ivi lo incendio senza metro.

 
  

Cunizza

Ma tornando a Folchetto chi prima lo aveva mostrato a Dante, chi gliene aveva magnificata la gloria, perpetua no, ma duratura, era una donna che ancor essa tiene un posto nella storia dei trovatori: Cunizza da Romano, la sorella \ ( 5 v.) d'Ezzellino e d'Alberico, l'amante di Sordello. 
  Non è questo il luogo di cercare perché a una donna la di cui vita era stata così sregolata, >specialmente se crediamo a Rolandino (v. 1200 V. Mur. VIII, 173)< il poeta abbia voluto assegnare un posto tra i beati. Una ragione egli l'ebbe di certo; ma qui Cunizza ci serva solo per passare alla più stupenda tra le figure che dal mondo cavalleresco sono penetrate nella Commedia, a Sordello da Mantova.  
  

Lezione II 

  

Sordello

Non c'è bisogno di ricordare qual posto egli vi tenga: tutti hanno a memoria i versi in cui egli è ritratto, tutti rammentano la sublime invettiva che la patria carità del >trovatore< mantovano inspira all'Alighieri.
  Trattandosi di una semplice rassegna, io non ho qui a dire partitamente di Sordello: sarà argomento buono per una delle ultime lezioni del corso, se resterà il tempo.  
I due concittadini Qui solo è da ricordare come Sordello, dopo aver abbracciato Virgilio qual concittadino, senza sapere null'altro di lui, lo riabbracci una seconda volta dopo che il suo nome gli fu rivelato. Ma questa volta l'abbracciare è di ben altro genere: non è l'uguale che abbraccia l'uguale, è l'inferiore che abbraccia il maggiore: \\ (6.r.)
  VII,10 Qual è colui che cosa innanzi a sé

Subita vede, ond'ei si maraviglia,

Che crede e no, dicendo: ell'è, non è;

 

Tal parve quegli, e poi chinò le ciglia,

E umilmente ritornò ver lui,

E abbracciollo ove il minor s'appiglia.

 

 
La poesia antica e la volgare 

  

V N

Gli è che questa volta Dante pone a fronte la poesia antica e la moderna, la latina e la volgare. Però subito ci ritornano alla mente certi luoghi della Vita Nuova, in cui Dante, alcuni anni innanzi,quasi dubitava di fare un paragone tra le due, ed usciva a dire che 

 
(XXV) dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. 

 

  Dopo aver visto Arnaldo, Beltramo, Folchetto, Sordello messi in mostra a questa maniera nella Divina Commedia non è per noi di troppo grande importanza l'andar ricercando gli altri nomi di poeti provenzali che occorrono nelle opere Dantesche.  
  

Altri trovatori 

  

  

  

Lancia d’Achille

Tuttavia ricorderò che oltre a Guiraut de Borneil, già menzionato per incidenza, il trattato De Vulgari Eloquentia nomina ancora Peire de Alvergne (Petrus de Alvernia , I, 9), Aimeric de Belinoi (II, 6, 12) e Aimeric de Peguilan .
  La menzione espressa di quest'ultimo non riesce sgradita, giacché in lui appunto si trova l'esempio più notorio della similitudine della lancia d'Achille, che Dante ha riprodotto:

 

Inf. XXXI,1 Una medesma lingua pria mi morse, etc. \ (6 v.)

 

 


CL anniCome la storia l'arte Si vede che le sue cognizioni erano imperfette; ma di queste non è qui a dire. Come la storia, così anche l'arte poetica delle tre lingue gli si rappresentavano sotto forma di unità. 
  Quindi è che le norme del 2° libro del trattato De vulgari eloquentia sono appoggiate ad esempi non meno di poeti provenzali e francesi che d'italiani.  
Sorelle 

Rivali

L'autore distingue, e però cita ordinatamente le autorità, ma ad un tempo unisce.\\ (7 r.)
La contesa delle tre lingue e letterature ; nostro idiomate (cfr. sermon materno nel Purg .) Ma se le tre lingue e le tre letterature gli si rappresentavano come sorelle, gli si rappresentavano pure come rivali. Tutte e tre avevano dei diritti >acquisiti<, dei pregi da vantare; diritti e pregi di tal sorta che Dante non si attenta a >dichiarare apertamente< a quale di esse spetti la preminenza. È una contesa che ha gran interesse per noi, e però non possiamo lasciare di leggere le parole di Dante, benché si tratti di un brano piuttosto lungo: 
  (I,10) Trifario nunc exeunte nostro idiomate (ut superius dictum est) in comparatione sui ipsius, secundum quod trisonum factum est, cum tanta timiditate cunctamur librantes, quod hanc, vel istam vel illam partem in comparando praeponere non audemus, nisi eo quo Grammaticae positores inveniuntur accepisse Sic adverbium adfirmandi, quod quandam anterioritatem erogare videtur Italis qui dicunt. Quaelibet enim partium largo testimonio se tuetur. Allegat ergo pro se lingua Oil quod propter sui faciliorem ac delectabiliorem vulgaritatem, quicquid redactum sive inventum est ad vulgare prosaicum, suum est: videlicet biblia cum Trojanorum Romanorumque gestibus compilata, et Arturi Regis ambages pulcerrimae, et quam plures aliae historiae ac doctrinae. Pro se vero argumentatur alia, scilicet Oc , quod vulgares eloquentes in ea primitus poetati sunt, tanquam in perfectiori dulciorique loquela: ut puta Petrus de Alvernia et alii antiquiores doctores. Tertia quae Latinorum est, se duobus \ (7 v.) privilegiis attestatur praeesse: primo quidem quod qui dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt, ii familiares et domestici sui sunt: puta Cinus Pistoriensis et amicus eius. Secundo quia magis videntur inniti Grammaticae, quae communis est; quod rationabiliter inspicientibus videtur gravissimum argumentum. Nos vero judicium relinquentes in hoc, et tractatum nostrum ad vulgare Latinum retrahentes, et receptas in se variationes dicere, nec non illas invicem comparare conemur.  
Considerazione: francese e provenzale si compiono  

a perfezione

Da questo brano, sia pure che Dante non decida, si trae tuttavia un'idea abbastanza chiara del posto che nella sua mente egli assegnava a ciascuna delle tre letterature. La francese e la provenzale si può dire che si compiano a vicenda: all'una spetta specialmente la parte narrativa e prosaica, all'altra la lirica; l'italiana, venuta più tardi, segue la provenzale per la materia e gli argomenti, ma riesce a superarla. 
  È un giudizio che, preso così in digrosso, possiamo accettare noi pure.  
Se non giudica teoreticamente, Dante giudica bensì come italiano 

Il Convito

Ma se dal punto di vista teor>et<ico Dante non crede di poter giudicare, la cosa va bene altrimenti quando egli prende a considerar la questione dal lato pratico, come italiano. È nel Convito, scritto, per quanto si crede, alcuni anni più tardi, ch'egli ci esprime il suo giudizio. 
  Qui egli ci si manifesta non \\ (8 r.) meno robusto pensatore che grande cittadino. È la prima volta che il volgare italiano serve a significare le astruserie del pensiero filosofico. Il Convito nella storia della nostra lingua segna veramente un'epoca, non meno della Divina Commedia .  
Le scuse L’'autore conosce perfettamente ciò che fa, ed opera con piena coscienza; le lunghe scuse che riempiono il primo libro, se possono far sorridere noi, non cessano di esser degne della massima considerazione per chiunque pensi. 
Confronto con Cicerone  Se Dante non ci avesse suggerito egli stesso il confronto con Cicerone, senza dubbio ci saremmo corsi da noi medesimi: tanto >riesce< calzante. 
  Realmente, quello che a' tempi dell'oratore romano accadeva del latino di fronte al greco, ora succedeva dell'italiano di fronte ai volgari di Francia. Però sono memorabili quelle parole che Dante scaglia contro coloro che preferivano i volgari altrui, parole ch'egli vuole costituiscano uno speziale capitolo, perché più notevole sia la loro infamia (I, X).  
L'invettiva  
A perpetuale infamia e depressione delli malvagi uomini d'Italia, che commendano lo volgare altrui e lo propio dispregiano, dico che la loro mossa viene da cinque abbominevoli cagioni. 
  La prima è cechità di discrezione: la seconda maliziata scusazione: la terza \ (8 v.) cupidità di vanagloria: la quarta argomento d'invidia: la quinta e l'ultima viltà d'animo, cioè pusillaminità. E ciascuna di queste reitati ha sì gran setta, che pochi sono quelli che siano da esse liberi.

 

Non istarò a leggere tutto, ma estrarrò le parti importanti, quelle che ci mettono bene in mostra il luogo che conviene assegnare a Dante nella questione >dei tre volgari.<

 

La seconda setta contro a nostro volgare si fa per una maliziata scusa. Molti sono che amano più d'essere tenuti maestri che d'essere; e per fuggire lo contrario, cioè di non essere tenuti, sempre danno la colpa alla materia dell'arte apparecchiata, ovvero allo stromento... Contro a questi cotali grida Tullio al principio d'un suo libro, che si chiama libro Di fine de’ beni; perocché al suo tempo biasimavano lo Latino romano, e commendavano la grammatica greca. E così dico per somiglianti ragioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza. La terza setta contro a nostro volgare si fa per cupidità di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui lingua e commendare quella, credono più essere ammirati, che ritraendo quelle della sua. E senza dubbio non è sanza lode d'ingegno apprendere bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre la verità per farsi glorioso di tale acquisto. \\ (9 r.)

 

E venendo alla quinta setta:

 

Lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere poco e l'altrui assai. Onde molti per questa viltà dispregiano lo proprio Volgare e l'altrui pregiano; e tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d'Italia, che hanno a vile questo prezioso Volgare, lo quale se è vile in alcuna cosa, non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri; al cui condotto vanno li ciechi delli quali nella prima cagione feci menzione. [I.XI]

 

 
Conclusione del 1° trattato Quindi fidente nel suo linguaggio e nelle sue proprie forze Dante ben a ragione conchiude il 1° trattato con quelle parole memorabili: 
  Questo sarà quello pane orzato, del quale si satolleranno migliaia, e a me ne soverchieranno le sporte piene. Questo sarà luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà ove l'usato tramonterà, e darà luce a coloro che sono in tenebre e in oscurità per lo usato sole che a loro non luce [I. XIII].

 

  Dante non abbagliato da pregiudizi nazionali.
Gli accade della lingua come della patria sua: come per lui Firenze, dalla quale per troppo amore si trova esule, è la città più cara, più gradita \ (9 v.) sebbene molte creda essercene che per sé medesime sono più deliziose ed illustri, così ama sopra ogni altra la sua lingua quantunque dispostissimo ad ammetterla inferiore di pregio a molte altre (I, 6):

 

...Multas esse perpendimus, firmiterque censemus, et magis nobiles, et magis delitiosas, et regiones et urbes quam Thusciam et Florentiam, unde sum oriundus et civis, et plerasque nationes, et gentes delectabiliori atque utiliori sermone uti quam Latinos.

 

 
Confronto colle affermazioni anteriori  

V. N.

Non è tuttavia a disconoscere che la fiducia nella sua favella gli era sempre andata crescendo, tantoché nel Dante, che scrisse le parole addotte del Convito, abbiamo fatica a ravvisare il Dante che nella Vita Nuova aveva detto: 
  (I, XXV) E lo primo che cominciò a dire siccome poeta volgare si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna; alla quale era malagevole ad intendere i versi latini. E questo è contro a coloro che rimano sopra altra materia che amorosa; conciossiacosachè cotal modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'Amore.

 

 
Evoluzione  C'è dunque anche sotto questo rispetto nel pensiero dantesco una evoluzione che va ben rilevata. Già nel trattato di Volgare Eloquio l'autore pensa ben altrimenti, giacché disputando quali argomenti si addicano al volgare illustre, dice che solo gli altissimi, e li distingue in tre categorie: Salus, Amor, Virtus: cioè Armi, \\ (10 r.) Amore, Rettitudine (Tutto il cap. II, IV è da vedere nella conferenza).
  E trattando questo argomento e dando a Dante tutta la lode che gli spetta sarebbe ingiusto scordare colui che più efficacemente aveva cooperato a inspirare e radicare in Dante la fiducia nel >suo< Volgare: voglio dire l'amico suo Guido Cavalcanti, il primo dei nostri poeti filosofi.  
Guido Cavalcanti 

V. N.

È Guido che raffermò Dante nel proposito di valersi dell'italiano scrivendo la Vita Nuova, a lui indirizzata: Guido, alla volontà del quale è da attribuire in parte se Dante si fece per questo rispetto tanto scrupoloso, da escludere dal libro un’epistola da lui composta sulla morte di Beatrice, perché scritta in latino:
  XXXI Poiché la gentilissima donna fu partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova e dispogliata di ogni dignitade, ond'io ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a' principi della terra alquanto della sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia: Quomodo sedet sola civitas!: ...E se alcuno volesse me riprendere di ciò che non scrivo qui le parole che seguitano a quelle allegate, scusomene, perocché lo intendimento mio non fu da principio di scrivere altro che per volgare: onde, conciossiaché le parole che seguitano a quelle che sono allegate sieno tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se io le scrivessi; e simile intenzione so che ebbe questo mio amico a cui ciò scrivo, cioè ch'io gli scrivessi solamente in volgare. \ (10 v.)

 

 
I colloqui  Pur troppo noi possiamo solo divinare che cosa avessero a dire nei loro colloquii famigliari i due amici intorno a questo proposito: ma appena si può mettere in dubbio che se Dante merita di essere chiamato padre di nostra lingua, se per lui il volgare toscano divenne pure il linguaggio della filosofia e della scienza in genere, e venne a fissarsi nel trecento anziché nel 500, Guido Cavalcanti ci ha la sua parte di merito.
  L'Alighieri è continuatore e perfezionatore dell'opera dell'amico e >quasi< non si >vorrebbero< intendere solo del merito poetico quelle parole del Purgatorio:

 

Così ha tolto l'uno all'altro Guido

La gloria della lingua, e forse è nato

Chi l'uno e l'altro caccierà di nido.

 

 
Posto di Dante di fronte alle lingue straniere Così ci troviamo aver determinato il posto che spetta a Dante di fronte alle letterature straniere: le studia, le ammira, ne fa suo pro, ma insieme crede che sia da vituperare ogni italiano che scordando la patria coltivi lo volgare altrui in luogo del proprio. 

 

Dante ci rappresenta quindi la reazione contro l'uso del provenzale e del francese che durava da un buon secolo, specialmente nell'Italia del Settentrione, e che si continuerà ancora \\ (11 r.) per più di cinquant'anni. Dante reagisce in doppio modo: colle ragioni e coll'esempio. Ed ora, premesse tutte queste considerazioni, possiamo con miglior fiducia volgerci ad esaminare la materia della Divina Commedia.

Quanto alla conoscenza che Dante doveva avere del greco tutte le prove sono della stessa forza. Per esempio si citano passi dell'epistola a Can Grande: 7 "Ad evidentiam itaque dicendorum sciendum est, quod istius operis non est simplex sensus, immo dici potest polysemum; hoc est plurium sensuum". Or bene, la lezione non è certissima perché altri leggono polysensuum ; ma io l'ammetto e l'approvo col Giuliani. Se non che la voce polysemum a significare "di molti sensi" occorre appunto in Servio, nel Commento al I° dell'Eneide.

Così poco dopo: "Allegoria dicitur ab ajlloi'o" graece, quod in latinum dicitur alienum, sive diversum". Ma santo Dio, qual'è quel libro che menzionasse l'allegoria senza menzionarne il valore etimologico? Dirò che sa di greco uno che trova etimologie, non uno che ha la bravura di trascriverne qualcuna. Questo dico perchè l'Ozanam, così giudizioso, eccede un poco e pecca a questo proposito: (Dante et la Phil. Cath. 114)

"Il n'ignora pas entièrement le grec, et, s'il n'y fit point des progrès assez soutenus pour lire aisément les textes originaux, les versions ne lui manquèrent pas". E in nota: Il cite des etymologies grecques avec assez de bonheur dans sa dedicace du Paradiso à Can Grande, et dans le Convito lib. IV cap.VI (Qui non si tratta di greco) Voyez aussi le sonnet,

Ponti sera e mattin contento al desco.

Questo sonetto non è ricordato per nulla nell'edizione Fraticelli, nemmeno tra le rime apocrife. \ (11 v.)

E a proposito di quanto ho detto, che se Dante avesse saputo di greco le prove abbonderebbero, ricordiamoci dello stento ch'egli dice di aver dovuto sostenere per entrare nella sentenza di Boezio e di Cicerone. Ed entrare nella sentenza qui significa intendere, giacché altrimenti non ci avrebbe nulla che fare la grammatica.

 

Conv. II, XIII E misimi a leggere quello, non conosciuto da molti, libro di Boezio; nel quale cattivo e discacciato, consolato s'avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando dell'amistà, avea toccate parole della consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, nella morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegnaché duro mi fosse prima entrare nella loro sentenza, finalmente v'entrai tant'entro, quanto l'arte di Gramatica, ch'io avea, e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea; siccome nella Vita Nuova si può vedere.                      Ho poco meno che torto: s'intende del senso filosofico . L'arte di grammatica insegnava a Dante il significato letterale, e quindi era istrada a         penetrare nella sentenza dei 2 scrittori. Cfr. cap. XVI:

 

Per le ragionate similitudini si può vedere chi sono questi movitori, a cui io parlo; che sono di quello movitori; siccome Boezio e Tullio, li quali colla dolcezza del loro sermone inviarono me, come detto è di sopra, nell'amore, cioè nello studio di questa donna gentilissima Filosofia, colli raggi della Stella loro, la qual è la Scrittura di quella.\\.(12 r.)

 

(Bartoli 94) Martino da Canale, Arch. St. It. VIII, 268. Scrive francese perché "lengue franceise cort parmi le monde, et est la plus delitable a lire et a oir que nule autre". Brunetto, Li Livres du Tresor, par Chabaille, p. 3:

 

parce que francois est plus delitaubles lengages et plus communs que moult d'autres. \\ (13 r.)  
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