1999 Claudia Di Fonzo ©

C. Di Fonzo, Dalla terza redazione inedita dell'"Ottimo commento": il canto della fortuna. Edizione critica e diegesi redazionale, in «MEDIOEVO E RINASCIMENTO», XIII (1999), pg. 173-206.





"...et le fortune afflicte et sparte


perseguire..."
(F. Petrarca, R.V.F., cxxviii)

   "... questa corsa del tempo
a sparigliare destini e fortuna ..."
(F. De Andrè, Disamistade)
 

Ad introdurre la materia di questo pur breve specimen tratto dalla così detta "ultima forma" del commento alla Comedia attribuito ad Andrea Lancia e prima di presentare all'attenzione degli studiosi le nuove acquisizioni, che saranno pienamente giustificate nella pubblicazione dell'edizione integrale dell' Ottimo commento in tale "ultima forma", ci par utile riassumere brevemente lo status quaestionis in rapporto alla diegesi redazionale.

Prima di Vandelli, Michele Barbi "aveva individuato una terza e più perfetta redazione dell’Ottimo in due codici della Vaticana: il Barberiniano Latino 4103 (BA) e il Vaticano Latino 3201 (VA)". Il Vandelli chiama la redazione di BA "l’ultima forma" del commento in rapporto alle altre due redazioni: la prima (1333-34), conservata nel cod. Laurenziano 40. 19 (sec. XIV) riprodotto dal Torri nella stampa; la seconda, di poco posteriore, tradita dal secondo grappolo di manoscritti del Rocca dei quali maggiormente rappresentativi sono, mutatis mutandis , il codice Riccardiano 1004 e il Magliabechiano II. I. 31 della Nazionale di Firenze (sec. XV) e da alcune parti edite dallo Scarabelli.

A latere rimangono il manoscritto membranaceo della Biblioteca di Berlino Hamilton 203 (sec. XIV), che contiene un piccolo frammento di commento al primo canto dell'Inferno, e gli altri due codici segnalati dall'aggiornatissimo contributo di Marcella Roddewig: il codice membranaceo parigino Fonds italien 74 (sec. XIV fine) che presenta delle glosse dell'Ottimo e il il ms. I. Steward Gardner Museum 11, (già Barrois 23) del Gardner Museum di Boston, codice tardo della prima metà del XV secolo. Esso contiene: una "tavola de’ capitoli" (cc. 1r-3v) che riassume il contenuto dei canti e che concorda con quello attestato dal Riccardiano 1038 (Cioffari), tre diversi accessus alla prima cantica della Commedia di diversi autori (tra cui il primo sicuramente del Lana e il terzo dell'Ottimo nella versione riprodotta dal Torri, come vedremo talora coincidente alla redazione attestata dal Riccardiano 1004) raggruppati sotto la rubrica che dice: "Inchomincia il prolagho et la forma di questa opera. Et in che stato era l'autore quando la chompuose et che forma dae a tutto il libro et dice così". Quindi "chomincia la Chomedia di Dante Alleghieri" con il primo canto "nel quale l'autore prohemiça ad tutto il libro" (cc.7r-93v). Quindi seguono due capitoli danteschi, di Jacopo di Dante e di Bosone da Gubbio, il Raccoglimento attribuito nel codice al Boccaccio e un capitolo misto con versi di Cecco di Meo Mellone degli Ugurgeri e Mino di Vanni d'Arezzo.

Segue infine un commento italiano, anonimo, ai canti I-VII dell' Inferno (dalle cc. 109r-123r) e ai canti I-VI di Paradiso (a partire dalla stessa carta 123r, colonna b).

Tale commento, scrive il Cioffari, segue per il primo canto dell' Inferno le glosse di Graziolo e per Inf. II, III, e IV e Par. I e VI con il commento dell'Ottimo (O1 ed. Torri). Certifichiamo che per il nostro canto, il VII dell'Inferno, il Commento di Boston segue la redazione della stampa Torri che a sua volta segue dappresso la redazione Riccardiana, ed entrambe attingono dal Lana a partire dall'incipit del proemio che presenta la codificazione di stampo classico, giunta fino a Tommaso, per cui "virtus consistit in medio": "Conciosiacosaché di ciascuna operazione il mezzo sia virtù, dunque le stremitadi , cioè il troppo e il poco, sono vizii" (O1 Torri, p. 103).

Altro problema è quello dell'esistenza di una "proto redazione". A tal proposito, scrive Mazzoni nella prefazione alla ristampa del Torri, "il Roediger, poi seguito dal Barbi e ben più di recente dal Bellomo, aveva dichiarato di riconoscere "nel codice Poggiali 313 (...) un primo e curiosissimo abbozzo del commento fiorentino""

Allo stato attuale dei lavori possiamo dire che tramandano "l'ultima forma" del commento, posteriore al 1337 ma anteriore alla prima redazione del commento latino di Pietro Alighieri del 1340, e in ogni caso da porsi per dati interni avanti al 1343, i seguenti manoscritti: BA Vat. Barber. 4103 (sec. XIV) e VA Vat. Lat. 3201 (sec. XV), quest’ultimo sicuramente descriptus ; il codice NY M 676 della Pierpont Morgan Library di New York (fine del sec. XIV) che è il manoscritto più significativo accanto al Barberiniano; e da ultimo PA Parigino 70 (inizio sec. XV) della Biblioteca Nazionale di Parigi, che contiene solo il commento incompleto ai canti I-X dell' Inferno.

Per la definizione del problema redazionale, limitatamente a quel che concerne le prime due redazioni, giova notare che "una parte assai considerevole del commento è comune a molti codici e nel medesimo tempo non si identifica né col Lana, né con altri commenti a noi noti" Si tratta di 27 capitoli del Paradiso (I-XXVII), 14 del Purgatorio (VII- XX) e tali possono considerarsi molti dei capitoli dell'Inferno a partire dal V (V-XXXIV).

Questa osservazione di carattere generale vale, con qualche precisazione, anche per il canto che noi qui anticipiamo, il settimo dell' Inferno .

Ai loci distintivi, usati a caratterizzare la terza redazione: l'esistenza del volgarizzamento di Graziolo nei primi tre canti con la conseguente inserzione della nozione di agens in riferimento al personaggio Dante che diviene colui che andando si perfeziona, l'esistenza del volgarizzamento dell’ Epistola a Cangrande nel Proemio alla terza cantica, lo svariare dell’ordinamento morale dell’Inferno in relazione al concetto della "malizia", l'omissione dell'indicazione di tempo (l'anno prossimo passato) in relazione alla menzione della Statua di Marte che era su Ponte Vecchio prima dell’alluvione del 1333 si aggiungono dopo l'esame dei singoli canti, settimo compreso, altri elementi che supportano la tesi di una diversa fase redazionale, successiva rispetto alle altre due redazioni globalmente considerate.

La terza redazione, in relazione al canto considerato, pur concorde alla prima e alla seconda anche per quel che riguarda la fonte (il Lana), presenta un proemio che ne caratterizza la diversa fase redazionale. Occorre, in ragione di ciò, fermarsi sul proemio in questione. Tale proemio manca del tutto in PA ma è presente in BA e NY e naturalmente nel descritto VA (testimoni della terza redazione), e riproduce il testo del proemio della stampa Torri (prima redazione) che con qualche differenza, in aggiungere, riproduce il testo del Riccardiano 1004 (seconda redazione), e tutti riproducono il testo del Lana edito dallo Scarabelli (coincidente perfettamente con il testo contenuto dal Vaticano 4776) sebbene le citazioni scritturali del Lana siano state volgarizzate dall'Ottimo (O1 ed. Torri e O2 Riccardiano 1004). Rimane ancora da notare che sebbene si tratti sostanzialmente dello stesso proemio, BA e NY, terza redazione, innovano per sottrazione e omettono l'estensione di un gruppo di citazioni volgarizzate riportando solo l'indicazione generica del libro e del capitolo.

Pubblichiamo di seguito il proemio del Riccardiano 1004 (RI) nel luogo precipuo messo a confronto con il proemio di BA e NY per rendere ragione della situazione redazionale per ora in relazione al canto in questione: BA e NY si corrispondono verbaliter e nelle lacune di citazioni estese e costituiscono una diversa fase redazionale. VA si comporta come BA. Il Riccardiano 1004 (come anche il BNF II. I 31) riporta il proemio con l'estenzione delle dette citazioni concordando in ciò con la stampa del Torri allorché cita Isaia 5, 8 (Vae, qui coniungunt domum ad domum /et agrum agro copulant) e volgarizza la citazione scrivendola per esteso "Guai a voi che congiungete casa a casa" . Così accade anche per Is 33,1 (Vae, qui praedaris, cum nemo te praedatus sit): "guai a _tte che rubbi perché sarai anche rubato tu"; Hab 2, 6 (Vae ei, qui multiplicat non sua): "Guai a colui che rauna le cose non sue"; Hab 2, 9 (Vae, qui congregat lucrum iniustum in malum domui suae): "guai a colui che rauna l’avaritia rea nella sua casa"; Am 6,1 (Vae, qui tranquilli sunt in Sion): "Guai a voi che siete richi in Sion"; Am 6, 4 (Qui dormiunt in lectis eburneis): "Guai a voi che dormite nelli lecti dello avolio"; Iac 5, 1 (age nunc divites plorate ululantes in miseriis quae advenient vobis): "Or piangete richi, urlate nelle miserie che vi avengnano"; Apc 8, 13 (vae vae vae habitantibus in terra) "Guai, guai, guai a quelli che habitano in terra".

La situazione è diversa per quel che riguarda O3 dove appunto le citazioni estese mancano. Il testo di O2 (RI) e O3 (BA) tornano a concordare a partire dalla citazione di Agostino, e in questo punto concordano O1 (Torri) e O2 (RI) con O3 (BA) citando il Lana. Proponiamo di seguito, nel luogo in questione, il confronto tra il Riccardiano e BA:
 

Riccardiano 1004
In secondo luogo a vituperatione dell’avaritia fanno le maladictioni che la Santa Scriptura fa alli avari delle quali riporremo queste .xii. che seguitano: Ysaia capitolo .v°.: "Guai a voi che congiungete casa a casa" . Et capitolo .xxxiii.: "guai a _tte che rubbi perché sarai anche rubato tu" Abachuccho, capitolo secondo: "Guai a colui che rauna le cose non sue". Et capitolo secondo: "guai a colui che rauna l’avaritia rea nella sua casa". Et Amos, propheta, vi° capitolo: "Guai a voi che siete richi in Sion". Et elli medesimo dice:"Guai a voi che dormite nelli lecti dello avolio". Et Jacomo appostolo capitolo .v.: "Or piangete richi, urlate nelle miserie che vi avengnano". Et nella sua pistola dice: "Guai a coloro che se n’andarono per la via de’ cani, se n’andarono quelli che seguitaro l’avaritia". Et nell’Apocalisse, capitolo .viii.: "Guai, guai, guai a quelli che habitano in terra", li abitatori della terra a modo di talpe sono li avari. Augustino: "Guai a coloro che crescono le cose che debbon perire per perdere l’ecterne". Elli medesimo dice: "maladetto lo spenditore avaro al quale Idio è largo"
Vat. Barb. 4103 (BA)

.xii. maledictione pone la Sancta Scriptura sopra li avari. La prima Ysaia, .v. capitulo; Item, .xxxii. capitulo; Abacuch, .ii. capitulo; Item, .x. capitulo; Amos,.vi. capitulo; Item ibidem. Sancto Jacopo prima epistola .v. capitulo, et nella .ii. epistola; Apocalipsi capitulo .viii. Et sancto Augustino dice: "Guai a coloro che vivono per accrescere le cose", et cetera. Et in altro// (p. 33 a) luogo dice: "Maladecto lo spenditore avaro", et cetera. Decto in generale di che s’intende tractare, in questo capitulo si stende a sporre particularmente la lectera. Dice dunque:  

 
L'edizione critica del canto

Esposti i problemi relativi alla diegesi redazionale dell'Ottimo commento in merito al proemio al canto della fortuna aggiungiamo che la prima e la terza redazione, per quel che riguarda il proseguo del settimo canto, sono pressocché identiche per contenuti e citazioni e cambiano solo leggermente per quel che riguarda la formulazione delle proposizioni.

A questo punto non ci rimane che enunciare i criteri d'edizione usati nel proporre questo specimen dalla così detta "ultima redazione" del commento attribuito ad Andrea Lancia Notaro Fiorentino, nato intorno al 1280 e attivo almeno fino al 1355-1356. A tal fine abbiamo adottato per le forme il "miglior manoscritto": il più francamente fiorentino, il Barb. Lat. 4103 (BA) seppure in esso si possano riconoscere almeno due ulteriori patine linguistiche: la prima dell'area della Toscana meridionale e la seconda, limitatamente al Purgatorio, dell'Italia meridionale.

Il codice BA viene supportato talora, cioè nei casi di scempiamenti e raddoppiamenti irrazionali, da forme che l'editore ha preferito correggere qualora giustificato dalla tradizione manoscritta. Non si è proceduto a una normalizzazione.

Si registra, nel codice, l'alternanza della forme sanza accanto a senza di BA sebbene per il canto qui proposto BA preferisca la forma più moderna senza di contro a NY che utilizza sanza , così come BA preferisce la forma estremi in luogo di istremi e in maniera del tutto opposita usa la forma accusativale prodigalitade contro prodigalità di NY.

Di fronte all'alternanza delle forme capitulo e capitolo , e figlio figl[i]uolo, in sede di scioglimento delle loro abbreviazione (caplo) e (figl'o) si è adottato il criterio della maggioranza statistica dell'attestazione e dunque a favore delle forme capitolo e figliuolo , questa volta senza segnalare l'integrazione di i del nesso palatale.

Per la res ortografica si è proceduto a integrare la i diacritica dopo i nessi palatali, es. migl[i]ore , figl[i]uolo, etc, conservando tuttavia l'indicazione dell'integrazione [ ], seppure in alcuni luoghi, numericamente non consistenti, è lo stesso copista a introdurre la i diacritica nel nesso palatale: ad esempio nel canto VII (p. 37 a): migliore consiglio .

Per la rappresentazione dei numeri, si è deciso di riprodurre la situazione del manoscritto per i cardinale e di uniformare invece gli ordinali che vengono rappresentati, in Ba come negli altri testimoni, talora con numero, talora con numero e letterina soprascritta, talora scritti per esteso.

Si è adottata una grafia nel complesso conservativa anche nella rappresentazione dei nessi -ct-, -ngn- -lgl- -pt- -y- inclusa la zeta corta (BA alterna l'uso della cedilla, prevalente nell'Inferno a quello della zeta lunga, quasi esclusivo nel Paradiso ) normalizzando solo l'uso delle j con carattere distintivo ovvero usate dal copista per facilitare la distinzione delle lettere (es. judicio per iudicio ). Normalizzato è l'uso delle maiuscole e delle minuscole.

Non è stato inserito accento per le forme verbali seguite da - e epitetica d'uso fiorentino: anderoe, faroe etc. L'accento è stato usato solo per segnalare le forme verbali essere o avere, in questo caso anche seguite da e epitetica: àe .

Conspectus codicum
 
Tavola delle forme e delle grafie
Tavola delle lacune e degli errori
 
Stemma codicum
Vaticano Barb. 4103
/(p. 31 b) C.VII Inf.

[Proemio al canto] Pape sathan, pape sathan aleppe, et cetera. Ancora procede il tractato delli incontinenti però che dopo il vitio della gola tracta qui del peccato de l’avarizia et di prodigalitade, // (p. 32 a) li quali sono due estremi d’una vertude chiamata larghezza; lo largo dà a cui, quando che quanto et come si conviene, l’avaro in questo viene meno, e ’l prodigo superchia. Et però che avaritia et prodigalitade sono dintorno alli beni temporali, li quali molti credono che siano dati alli mortali et tolti dalla fortuna, però si tracta in questo capitulo che è fortuna. Punisce ancora in questo capitulo ira et accidia, li quali peccati se concepono ne l’animo. Avaritia è indebito amore de pecunia, lo quale Amore si causa nella potentia concupiscibile. Accidia è tedio d’animo. Ira è appetito di vendecta che si causa nella potentia irascibile. Pone l’auctore ministro sopra questi peccatori Pluto, che viene a dire padre de richezzze. Secondo le favole fue figl[i]uolo di Saturno et idio d’inferno. Optimamente si confae il ministro alla cosa che qui s’ aministra. Dividesi adunque questo capitulo principalmente in .iiii. parti. Nella prima parte pone l’officiale proposto a questo luogo, et sua contenenza et suo parlare. Nella seconda decrive le pene delli avari et delli prodighi. Et quivi forma et solve la questione di Fortuna. Nella terça descrive le pene delli iracundi. Nella quarta li tormenti delli accidiosi. La seconda parte comincia qui: Qui vid’io gente , et cetera. La terça comincia quivi: Noi ricidemmo il cerchio, et cetera. La quarta quivi: Che sotto l’acqua, et cetera. Tracta in questo canto della pena inflicta alli .ii. vitii che sono extremi della vertù chiamata larghezza; l’uno è avaritia, l’altro prodigalitade. Et di due altri vitii, accidia che è tepidezza d’animo, et Ira che è furore d’animo. D’avaritia et prodigalitate quivi: Qui vid’i’ gente, et cetera. De l’ira quivi: Vidi gente fangose, et cetera. De l’Accidia quivi: Et anche vogl[i]o , et cetera. De li quali .iiii.vitii diremo di ciascuno diffiniendo et distinguendo. Avaritia, come dice di sopra, è disordinato amore d’avere pecunia, et quello nome pecunia comprende beni mobili et immobili temporali,; lo quale vitio si fonda nella potenza concupiscibile. A questo vitio pertiene ambitione, symonia, usura, ladronecci, spergiurii, furti, men(p. 32 b)/zogne, rapine, violenze, inquietudine, obstinamento, inganno. Et però che socto altri canti particularmente si tracterae di questi membri, qui non si stende più la lectera, ma in generale parla d’Avaritia. Et però il testo nullo avaro nomina, però che li nomina infra ne li altri circuli, socto sue spetie. Et così di prodigalitade, della quale scrive infra, capitulo .xxviiii., circa finem.

Ira come è dicto è appetito di vendecta, et fondasi nella potenza irascibile, le cui spetie sono: odio, discordia, tenzone, iniuria, contumelia, impatientia, protervitade, malitia, nequitia, malignitade, furore, homicidio; della quale ira in genere parla, nullo nominando. Et così dico d’accidia, che è tedio d’animo, per lo quale alcuno è negligente d’ incominciare a fare bene o àe fastidio di compire lo bene incominciato. Et dividesi in queste spetie: desidia, pigritia, pusillanimitade, negligenza, disprovidenza, incirconspectione, tepidezza, ignavia. Avaritia riceve suo nutrimento da .vi. cose. Dalla familiaritade degli avari, dalla consideratione del ritenere cupidamente. Dallo apprezzamento delle ricchezze. Da l’amore della vanagloria. Da l’amore de’ figl[i]uoli, et da speranza di lunga vita. In vituperatione de l’avaritia fanno .iiii. cose spetialmente. In prima la natura. Secondamente le maledictioni che la santa Scriptura fa alli avari. Poi ch’ella è una servitute ydolatria, come dice l’auctore infra, canto .xviiii., quivi: Facto v’avete idio d’ oro e d’argento , et cetera. Poscia però che questo vitio è una delle peggiori infirmitadi spirituali, la natura vuole che _lla terra sia la più infima delle creature, et calcata da’ piedi, figurando in cioe che noi con li piedi della mente dovemo avere a vile et calcare queste cose terrene, et l’avaro antipone a Dio et a tucte le creature questa infima creatura, .xii. maledictione pone la sancta scriptura sopra li avari. La prima Ysaia , .v. capitulo; Item, .xxxii. capitulo; Abacuch, .ii. capitulo; Item, .x. capitulo; Amos,.vi. capitulo; Item ibidem. Sancto Jacopo prima epistola .v. capitulo, et nella .ii. epistola; Apocalipsi capitulo .viii. Et sancto Augustino dice: "Guai a coloro che vivono per accrescere le cose", et cetera. Et in altro// (p. 33 a) luogo dice: "Maladecto lo spenditore avaro", et cetera. Decto in generale di che s’intende tractare, in questo capitulo si stende a sporre particularmente la lectera. Dice dunque:

[1] Pape sathan, che viene a dire "o meraviglia principe de’ dyavoli". Sathan è interpretato adversario, o contrario o assalitore. pape in gramatica è adverbio che denota una admiratione et uno stupore d’animo. Et dice cominciò Pluto, che come è dicto viene a dire "padre de ricchezze", et piacque a l’auctore di preponerlo sopra coloro che in balia ebboro le ricchezze mondane, avegna che li poeti il mettano generale idio dello inferno. Et dice con la boce chioccia, però che l’avaro non parla mai con boce chiara né intera.

[3] e quel savio, et cetera. Qui mostra l’auctore che elli avesse grande paura di Pluto, et però induce il conforto da Virgilio, dicente: non ti noccia, ch’elli non può impedire lo tuo camino.

[7] Poi si rivolse, et cetera. Qui l’auctore descrive come Virgilio manifestoe a Pluto che per gratia de Dio spetiale Dante passava per lo inferno, et ciò non era senza grande cagione.

Et in prima lo isgrida descrivendo lui con uno viso enfiato, et lupo rabioso desiderante di divorare la gregia del signore, et per più confonderlo dice "questo viaggio è deliberato nel cielo, donde Sancto Michele archangelo caccioe il tuo magiore. Et dice superbo strupo, cioè avulterone, che se fosse essuto naturale et legittimo figlio, non sarebbe levato contro al sommo padre.

[13] Quali dal vento et cetera. Descrive la confusione ch’ebbe Pluto delle parole de Virgilio, udendo villaneggiare sé e ’l suo maggiore.

[16] Così scendemmo, et cetera. Pone l’entrata nel quarto circulo.

[19] Ai Iustitia di dio, et cetera. Amirativamente parla qui l’auctore della giustitia, che là giù punisce li avari et li prodighi.

[22] Come fa l’onda là sopra Cariddi, et cetera. Discrive per farne comparatione uno pericolo di mare presso la Cicilia, nel quale periscono le improvise nave, però che di ver levante corre verso ponente quello mare, et di verso ponente verso levante, o vero /(p. 33 b) di tramontana in ostro, et da ostro in tramontana, et li marosi contrarii s’intoppano et spezzano insieme. Overo, come dice Papia, è mare bollicoloso in Cicilia, che col suo gorgo occulto le nave inghiottisce tre volte tra die et nocte, et tira a sé l’acque, et tre le rigetta. Cariddi viene a dire "devoratrice"; secondo le favole fue una femina la quale Hercole gittoe in mare perché li aveva furati li buoi.

[25] Qui vid’i’ gente più ch’altrove troppa, et cetera. Qui descrive la moltitudine di questi peccatori del .iii. circulo, et divideli in due, cioè in avari et prodighi, et descrive loro costumi in questo luogo. Dice che con grandi urli voltavano li pesi mondani, l’uno contra l’altro, però che sono oppositi avaritia e prodigalitade, et l’una parte gridava contra l’altra, cioè il prodigo contra l’avaro, perché tiene l’avere che è facto per spendere, e l’avaro contro al prodigo, perché getti l’avere, deputato alle bisogne delli huomeni. Et dice così tornavan per lo cerchio tetro, cioè obscuro, gridando il dicto loro ontoso verso.

[36] Et io ch’avea, et cetera. Questa domanda che fa Dante a Virgilio è aperta, nella quale significa essere più vituperoso vitio l’avaritia, in ciò che la metta da mano sinistra, che la Prodigalitade. Et dice che questi avari pareano tucti chierci, sì erano tonduti.

[40] Et elli a me, et cetera. La risposta di Virgilio è chiara dove biasma il prodigo e l’avaro in ciò che dice che con misura nulla spesa feciero, et dicie che il loro parlare manifesta che elli fuorono, dicendo l’uno per che tieni, l’altro "per che getti". Poi procede et dice: "Questi de chi tu parli fuorono cherici che non ànno coperchio de capelli al capo, ma cherica, e fuorono papi et cardinali ne’ quali come fuorono più excellenti, più pecunia venne loro alle mani, et più tenacemente la ritennoro". Et però dice in cui usa o usoe avaritia il suo maggior vitio.

[49] Et io maestro et cetera. Queste parole de l’auctore sono aperte.

[52] Et elli a me, et cetera. In questa sua risposta Virgilio tocca .iii. cose. L’una è della conditione del peccato di coloro, quanto al presente loro peccato, che dice che la bruttura di quello vizio li cela sì, che nullo li cono//(p. 34 a)sce; l’altra è della <quale> forma nella quale risurgeranno con li corpi al die del Iudicio questi avari et prodighi; li avari col pugno chiuso, a dimostrare che sempre serrarono, li prodighi con li crini mozzi, a denotare per li capelli le loro facultade mozze da loro per prodigalitade. La terça tocca de la ministra de’ beni temporali secondo li phylosophi chiamata fortuna, et della viltade d’essi beni per lo effecto loro piccolissimo, dicendo "ora vedi come è corta la bugia che usano li beni temporali, li quali falsamente promettono quello che dare non possono, li quali tutti adunati nonché felicitade, ma uno poco di posa non potrebboro dare ad una anima partita dal corpo. La .ii. cosa tocca quivi: Et questi surgeranno, et cetera. La .iii. quivi: Or puoi figlio.

[61] Or puoi figluol veder la corta buffa / De’ beni che son commessi alla fortuna, et cetera. Questa è la .iii. cosa, la quale è manifesta per quello che è dicto di sopra.

[67] "Maestro", diss’io, et cetera. Però che Virgilio ne la sua risposta toccoe questo nome fortuna, et li beni che sono commessi a_llei, qui l’auctore si vuole certificare che è fortuna, perché tra li mortali n’è grande dubitatione: che alcuni dicono che fortuna nulla è altro che uno vano nome, siccome vuole sentire Lucano quivi dove dice che li cavalieri che mormoravano contra Cesare diceano "andianne, et lasciamo Cesare a la fortuna", il quale dice ch’ella conduce il principe, e ’l principe l’oste, et vederà se noi siamo noi la fortuna, o se ella è alcuna cosa fuori de noi, et certificare si vuoli perch’ella dà così questi beni, ritraeli et sparge.

[70] Et quelli a me, et cetera. In questa risposta Virgilio fa due cose. Prima riprende la ignoranza de’ mortali circa questa fortuna. Nella .ii. dichiara che è fortuna et quale è il suo officio. La .ii. quivi: Colui lo cui savere, et cetera.

[72] Colui lo cui savere, et cetera. In questa parte fa due cose. Prima manifesta l’ordine dato da Dio a conferire la bontade divina nelle creature. Nella seconda si stringne a quello executore che è preposto da Dio a distribuire li beni temporali alli huomeni /(p. 34 b) quivi: Similimente et cetera. Nella prima parte dice che la infinita sapientia di Dio fece li cieli, come dice nel cominciamento del Genesi: "In principio creavit Deus celum", et cetera. Et alli movimenti di quelli cieli ordinoe le intelligenze, ciò sono l’angeli, per la cui vertude li cieli resplendessero di varii lumi; et volle che avessero varii movimenti, per la quale sapientia in questi celestiali circuli fue la luce igualmente distibuita, cioè per diricta aguagl[i]anza, secondo che a ciascuno si conviene. Nella .ii. parte dice che similemente Idio diede executore et motore delli beni mondani, li quali, come elli sono temporali, così a tempo li distribuisce, però ché sì come Idio tutte le cose celestiale governa et regge o per sé o per li suoi angeli, così ordinasse alli beni temporali motore et rectore, lo quale rectore et governatore non è altro che la vogl[i]a sua. Et questa sua volontà dà, divide et permuta li beni mondani. Onde sancto Agustino dice: "La voluntate di Dio si è la prima et somma causa di tucti li moti spirituali et corporali. Nulla cosa si fa sensibilemente et visibilemente in questa ismisurata et amplissima re publica che non si comandi o permecta dalla invisibile et intelligibile sala imperiale del sommo Imperadore, secondo la ineffabile Iustitia de li meriti et delle pene, de le gratie et de le retributioni". Questa dispensatione delli beni temporali è chiamata fortuna da l’ humana cechitade, che non vede oltre de li sensi. Ma fortuna non è altro che temporale distributione delle cose provedute, o vero è mutabilitade delle cose temporale. O fortuna è uno effecto particulare non conosciuto da la sciença humana. O fortuna è una scienza de cose particulare non saputa da li intellecti humani. Et però non se ne puote fare electione, et però dice: Oltre la difensione de’ senni humani. Questi beni temporali attribuiti al governo di fortuna sono: Signorie, Ricchezze et fama. Ricchezze sono hereditaggi, servi et pecunia. Ne l’hereditaggio si contiene casamenti et possessione. Nella pecunia si contiene denari, oro, ornamenti et tucto mobile. Signorie sono di più maniere, de le quale la più nobile si è quella del Re//(p. 35 a) et di governare cittade et genti. Et seguita per ch’una gente impera , cioè signoreggia ne la prosperitade de’ beni di fortuna, l’altra langue, piangne et duole, perché di quelli beni dando pochi dicono. Seguendo il Iudicio di costei, cioè la voluntà sua, la quale è iudicio di Dio, occulto come in herba angue, ché il serpe tra le quai sta nascoso prima trafigge che huomo il veggia. "O come sono profondi et da non potere cercare li Iudicii tuoi Signore".

Amici sarebbono et sono essute periculose le potenze , li honori, le ricchezze, la fama, le quali cose come con fatica s’acquistano, così con pena si tengono et con dolore si lasciano. O a quanti fue utile et salutevole la povertà, non esser conosciuto, esser privato et senza dignitade. Ma secondo che dice Boetio nel libro de la Consolatione, "Nullo si contenta di suo stato, et langue però ch’àe ricchezze, non figl[i]uoli; l’altro si duole ch’àe figl[i]uoli et non àe che lasciare loro; l’altro però che non àe parente per li quali sia gradito et temuto. Questi si contrista che è nato di nobile schiatta, il quale non vorebbe essere conosciuto per la sua povertà".

[85] Vostro savere, et cetera. Sì come è dicto di sopra, fortuna è una scienza ignorata dalli intellecti humani, et però il senno delli huomeni non puote riparare al suo iudicio. Et questo è ragionevole. Ancora per ciò che il libero arbitrio non è se non quivi dove la voluntade et l’intellecto puote elegere, et la electione non si puote fare se non in queste cose, o vero di quelle cose che si fanno. Se fortuna è ignota a noi come dicto è, per conseguente di lei non si puote fare electione, sì che il libero arbitrio non le puote contastare.

[86] questa provede iudica et prosegue.et cetera. In queste parole sono tre acti de fortuna, dove mostra che quanto a sé fortuna ella procede da chi àe mero et puro imperio con ongni Iurisdictione; dice ch’ella provede, col quale acto dà ad intendere che le sue operationi non sono a caso ma con somma deliberatione, però che provedenza è una potenza d’animo per la quale l’uomo considera et delibera de le cose a venire per le cose passate et è conoscimento de le cose presenti. Dunqua, in questo provedere usa due officii. Per l’uno guarda et considera le cose presenti; / (p. 35 b) per l’altro antiguarda ciò che puote avenire, et quale puote essere il fine o di beni o di mali. Poi seguita il secondo acto, cioè il iudicare, però che da ch’àe proveduto il fine si determina et iudica, onde si schiude il trabocchare, ma optimamente examina la causa anzi che _lla determini per iudicio.

Il terzo acto è il proseguire, però che poco va[r]rebbe la sentenza e ’l iudicio se non si mandasse ad executione.

[87] Suo regno et cetera, cioè quanto ella distringne, cioè dintorno alli beni temporali, richeze, signorie et fama; [come il loro gl’altri dei. Poeticamente parla. Sì come li pagani chiamarono li corpi celestiali dei, et secondo le loro influentie così denominarono le loro deitadi. Sì come Marte, che àe a dare influenze di guerre il chiamarono idio delle battagl[i]e, Mercurio chiamarono Dio d’el[o]quentia, però che è dio de’ mercatanti, li quali con suavitate di parlare vendono et conparano. Et però dice che come questi pianeti usano la loro iurisdictione in quelle cose che non ànno a fare loro operatione, così questa fortuna fa nelle cose a lei subiecte. Di costei dice Boetio nel libro Della consolatione in sua persona: "Perché sola io fortuna dalli huomeni sono vietata d’usare mia ragione?. Or non è licito al sole di dare lo chiaro die, et alla luna quello medesimo ricoprire con tenebrosa nocte. Or non è licito a l’anno d’adornare il volto della terra ora con fiori, ora con biade, ora confondere quello viso con pioggie et con baleni. La ragione del mare si è ora di lusingare con abonacciate acque, ora d’incrudelirsi con marosi et tempeste; perché dunque la infinita avaritia delli huomeni ci vuole legare a la fermezza, la quale è istraniera da’ nostri costumi".

[88-90] Le sue permutationi, et cetera. Et bene dice che non ànno triegue, però che sempre sono in moto et in battagl[i]e; et sogiungne: necessità le fa esser veloce, / sí spesso vien che vicenda consegue. Il cancelliere di Bologna ser Gratiolo chiosò sopra queste parole così: dice il testo che quella fortuna mai non cessa, mai non posa di trasmutare d’uno in altro questi // (p. 36 a) beni temporali, et che di necessità ella è veloce nelle sue influenze e permutationi. Ma avegna che queste parole così suonano, che la fortuna così meni et faccia influenza in quelli beni temporali, et che il senno humano non possa provedere né riparare contra l’operationi et permutationi di questa fortuna, neente meno secondo la discretione de la mia giovenezza io dechiareroe alcuna cosa sopra questa materia per difensione et conservatione de l’honore et de la fama di questo venerabile auctore, accioe che per la fama delli mali parlanti et invidiosi non si possa detrarre né derogare a la sua vera scienza et vertude.

Da vedere et da sapere è che Dio chi è la prima causa da la quale tucte le cose ànno a causarsi, per le influenze delle spere et circuli del cielo, sì come per cause secondarie, in queste cose disocto adopera alcuna volta per necessitade, alcuna volta per dispositione et qualitadi. Per necessitade opera la celestiale spera nel generare et producere qualunque nascente, però che necessario è secondo la naturale necessitade, causando la vertù de la materia celestiale, che huomo ingeneri huomo, et bue bue, herba herba, et cetera. Necessario è che dopo il die vegna la nocte, et dopo le nocturne tenebre si spanda il raggio de la luce in terra, secondo il naturale corso et ordine del grande lume, se non facesse il contrario miraculosamente et supernaturalmente la infinita potenza di Dio. Questa natura del cielo dà influentia per dispositione in qualitade, qualificando et disponendo li huomeni rationali ad habituare, operare et proseguire de cotale a cotale pensiero, cosa o desiderio, quale in esso infonde la celestiale materia, verbi gratia. Se fanciullo nascerae allora che sarae signore de l’ascendente il pianeto di Iove, con ciò sia cosa che sotto Iove sieno ricchezze et honori, et ciascuno pianeto abbia a dare influenza di quelle cose de che è la sua natura, quello fanciullo, per la influenza del suo pianeto Iove non si necessiterae ma disporrassi et inanimerassi volontariamente a ricevere et amare honori et ricchezze. Così il fanciullo nato sotto Marte, di sua voluntade s’inanemerae et disporrae et attenderae a guerre, /(p. 36 b) romori, scandali, divisione et battagl[i]e. Et che per la influenza del cielo non si causi necessità ne li humeni questa è la ragione. La sapientia di Dio in operatione et perfectione di tutti li beni opera nelle creature et nelle sue operationi perfectissimamente, il quale, quando perfectamente ebbe creato l’uomo, diede et spiroe in lui tre cose: ragione, voluntade et libero arbitrio. La libertade de l’arbitrio sta ne l’eleggere d’adoperare bene et male.

L’appetito che per sé è mosso seguita quello che li piace. La ragione àe a regolare l’appetito, e farli seguire vertude, e questo è secondo che si pruova quivi: "Idio fece l’uomo simplice e diricto, et lasciollo ne le mani del suo consiglio". Et questo è quello che pruova sancto Agustino quando elli dice: "Colui che fece te senza te non iustificarae te senza te"; però che Dio che fece noi senza nostro adiutorio non ci iustificarae et non ci darae li meriti di vita eterna senza nostri meriti et vertude; né saremmo tormentati in inferno se non per lo peso et opere et meriti de le nostre malicie. Et però avegna che quella celestiale influentia di Saturno e di Marte o d’altro pianeto malivolo di sua natura disponga et chiami li huomeni a furare, o povertà, o guerre o altri defecti, et avegna che la influenza del pianeto benivolo disponga l’uomo a ricchezze et vertudi et honori, neentemeno il pianeto benivolo et felice non conduce o mena o qualifica l’uomo a bene recevere o fare, ma disponlo. Et così dico del pianeto benivolo malivolo, per le quale influenze non necessitade sono importate, ma qualitade et habito et dispositione, che per lo più sono differenti dalla necessitate. Che posto che Piero nato socto Mercurio per la influenza di quello pianeto sia disposto ad eloquentia, mai non sarae bello parladore, se per ragione et intellecto non apprende, et se con belli parladori et savii non vorrae conversare, et così de l’altre influenze de’ pianeti. Martino, nato socto Marte, fia disposto a battagl[i]e per la influenza di quello pianeto, il quale, se si vorràe reggere per ragione et intellecto, allora non seguiterae l’appetito e l’habito disposto alle battagl[i]e, ma regularae la qualitade et la dispositione per sano iudicio di // (p. 37 a) ragione conceduta a _llui per la podestà del libero arbitrio. E così non obstante che né per alcuni movimenti di scelerata stella, né per influenza rea d’alcuno corpo di pianeto, né per dispositione, qualitade o habito infuso da esse, da’ quali sono mossi o tracti li huomeni per necessario moto del cielo, neentemeno ciascuno huomo per senno et per ragione et per intellecto potrae raffrenare, confondere et del tucto rimuovere da sé li suoi malvaggi desideri, et volontade et intendimenti rei, quantunque procedano per influenza di pianeto o di stella, et questo faràe per electione di migliore consiglio, et per la libertade de l’arbitrio humano sì che non perverae alle sconce operationi, onde fia degno di lode et essere chiamato huomo vero et rationale, però che allora si governa per lo imperio della ragione. Ma se per suo difecto di debilitade d’animo o per subita voluntade lui trahente a cose sconce non vorrà vincere et raffrenare quelli cotali pensieri, qualitadi et dispositioni perverse, allora non dovrae essere chiamato huomo ma bestia, però che si conduce a modo di bestia per passione d’animo et per appetito, et questo si dee imputare alla sua inexcusabile negligenza et malitia voluntaria, peroché non volle schiffare le iniquitade et perversione et fellonie le quali elli poteo cessare per sapienza. Et questa pruova assai verifica Tolomeo astrologo, dove dice: "Il savio signoreggiarae le stelle". Et Boetio nel .iiii. De consolatione, dove dice: "Nella vostra mano è posta quale fortuna vogl[i]ate edificare a voi". Per la quale cosa seguita che della influenza de’ corpidi sopra non si causa necessitate, ma dispositione, habito et qualitate. Ancora se avenisse che per moto di pianeto li huomeni di necessitate si movessoro a bene o male operare, seguirebbe allora cosa sconvenevole et da non dire, cioè che l’umano arbitrio perisse; questo è falso, però che il libero arbitrio fosse tolto via, senza ragione alli buoni meriti, et alli rei pene si torebbono, però che le loro operationi a _lloro procederebboro di necessitate, et così si darebbe alli huomeni materia di peccare, da che non dovesse loro giovare la puritade della vertude et della buona operatione, et da che necessitade ordinasse delli //(p. 37 b) huomeni. Et seguirebbe altressie quella iniquissima, fallace cosa, cioè che li huomeni in vano contemplerebbono et speculerebbono la bontade et sapientia divina, et indarno amerebbono lui per caritade, et perderebbonsi li prieghi e _lle orationi, et indarno sarebbono scripti li comandamenti della divina legge, et che si osservasse Caritade, Fede, Speranza, Iustitia, Fortezza, et l’altre vertudi, da che tucte le cose venissoro da necessitade, la quale cosa si è contra la fede, et in tucto et per tucto da abhominare et riprendere. Considerata la perfectissima Iustitia de Dio la quale per lo iudicio della sua perfectissima ragione dà a li buoni meriti, et alli rei pena. Et però sopra la materia delle premesse parole si conchiude per necessaria ragione che della influenza delle stelle, che noi chiamiamo comunemente fortuna, non si infonde necessitate di bene o di male, ma dispositione, qualitate o habito a bene et male, la quale cosa pienamente pruova Boetio nella fine del .v. libro Della consolatione , là dove elli dice: "Sta ferma non corrotta la libertate de l’arbitrio alli huomeni et sta Dio fermo sopra le mente de tucti, che dispensa alli buoni meriti, et alli rei pene". Ma a vera ispositione del testo che dice: Le sue permutationi non ànno triegue / necessità le fa esser veloce/ sì spesso viene chi vicenda consegue , si è da dire, ed è vero, che _lla fortuna, cioè il moto suo, mai non posa ma sempre dà influentia et si muove et è di necessitate che ’l cielo continuo si muova et dea influentia, ma non ch’elli necessiti, come di sopra è provato. Et ove dice: Vostro savere non à contasto a _llei, et ove dice: oltre la difensione di senni humani , si puote rispondere in due modi: l’uno che l’umana prudentia non puote fare né contrariare al cielo il suo moto et influentia secondo sua natura. L’ altro modo è che dato che non si possa contastare alla influentia et moto del cielo per lo senno humano, non si toglie però via né seguita che la prudenza di ciascuno huomo non possa raffrenare le illicite et perverse cogitationi et dispositione ch’àe usate dalla influenza del cielo; che posto che Piero ch’è potente a correre non corra, non seguita ch’elli non possa correre, e così //(p. 38 a), posto ch’el senno humano non contradica né si opponga alla mala dispositione del pianeto, però non si togl[i]e né contradice il testo che contradicere non si possa ; di che seguita che l’umana ragione potrebbe per la libertade del suo arbitrio raffrenare li movimenti et le dispositione et le qualitade ree che discendono dalla influentia del cielo.

[91-3] Quest’è colei ch’è tanto posta in croce, / pur da color che li dovrian dar lode, / dandole biasmo a torto et mala boce. Ancora dice il testo questa fortuna è quella ch’è tanto biasimata, vituperata et maladecta dalli huomeni li quali de’ suoi beni ànno più avuti. In cui persona de la fortuna Boetio dice alli huomeni : "Quando la natura produsse te huomo del ventre de la madre, io te nudo ricevetti de tutte le cose, et te bisognoso con le mie ricchezze nutricai, et con quello favore io inchinevole più benignamente ti crescei, il quale favore ti fa ora impatiente di noi. Io t’acerchiai con habondanza et splendore di tucte quelle cose le quale sono de mia ragione. Ora mi piace di ritrarre la mano, abbi a grado quello ch’ài avuto sì come usato l’altrui cose non ài ragione di dolerti di me, sì come al postutto avessi perduto tue cose. Perché donque piagni [?] Nulla violenza t’è facta da noi, le riccheççe, li honori et tucte altre cotale cose sono di mia ragiuone, e le servitiali conoscono me per loro donna , meco vegnono, et sì io mi parto sì se_nne vanno, et cetera". Questi si dogl[i]ono però ch’ella non li prospera et habonda secondo loro perverso desiderio et disordinato, da li quali debitamente dovrebbe essere lodata e(t) honorata, sì per li beni che ànno avuti da essa ad uso, sì però che con ciò sia cosa che in loro sia ragione et intellecto dovriano conoscere et Judicare che li moti et la influença della fortuna sono necessarij in se medesimo, però che di necessitate è che il cielo si muova et dea influenza.

[94-6] Ma ella s’è beata et ciò non ode, / con l’altre prime creature lieta /volve sua spera et beata si gode. Per quello ch’è dicto di sopra chiaro appare quello che dice il testo, cioè che questa (p. 38 b) / fortuna è beata, però che è in cielo con l’altre intelligenze le quali fuorono le prime creature, et però non cura vostre maledectione et reprensione, ella gode nel suo cielo et questo muove secondo la provedenza et dispositione di Dio.

[97] Or discendiamo ormai a maggior pieta, et cetera. Poi che Virgilio àe sodisfacto alla domanda de l’auctore in mostrare che è fortuna et la sua influenza et moto, qui proseguita suo processo, et fa due cose. L’una è ch’elli descrive l’ora del tempo, in ciò che dice che ogni stella che saliva allora quando elli mosse al soccorso di Dante, va ora ad occidente: per che si dimostra ch’elli si mosse nel principio della nocte, come dice quivi: lo giorno se n’andava e l’aere bruno , capitulo .ii., dove mostra che già la mezza nocte corresse, però che in sei hore è volto in quarto del cielo, però che ogni stella s’intende salire da l’ orientale orizonte al meridionale cerchio, et poi scendere infino allo occidentale orizonte. Et però il pugne Virgilio con dire il troppo stare n’è vietato. La seconda cosa si è ch’elli dà ad intendere a l’auctore alquanto della qualitade del .v. grado, o vero circulo d’inferno, nel quale presentemente debbono descendere, cioè che ivi ànno li peccatori maggiori tormenti che in questo .iiii. circulo. Et è processo ragionevole, però che quanto più si discende al centro, tanto più sono gravi li peccatori di vizii degni di maggiore pena.

[100] Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva, et cetera. Decto di sopra del .iiii. circulo d’inferno e delli peccatori de l’avaritia, qui discende a tractare del .v. circulo et delli peccatori de l’ira, et di quelli de l’accidia. Et così si divide questo rimanente del capitolo in due parte. Nella prima parte tracta delli iracundi et di loro pena. Nella .ii. delli accidiosi e di loro tormenti. La .ii. parte incomincia quivi: Che sotto l’acqua à gente che spira, et cetera. Dice dunque qui ch’elli ricisono il cerchio discendendo nel .v. grado sopra una fonte d’acqua bogl[i]ente, la quale lo cominciamento della seguente colpa significa, et il secondo fiume infernale, et dice che si rovescia giù per uno fossato; //(p. 39 a) lungo il quale fossato se n’andarono infino che pervennero ad una palude che si fa di quella acqua che discende giù per lo fossato, la quale àe nome Stige, che viene a dire tristitia . Poi discrive la pena che ànno l’anime in quello pantano, le quale morirono in quello peccato de l’Ira, cioè che in questa belletta et acqua puzolente et nera si dibattono et percuotono et fierono se stessi et mordono et dilacerano sé; tucti questi sono segnali d’iracundi. Ira si è desiderio di vendetta d’alcuna ingiuria recevuta. Et è da sapere che, sì come il Phylosopho tracta nel .ii. de l’Ethica, Iracundia si è nella consideratione de l’ingiuria facta nelli beni di fuori, o vero in considerare li mali di fuori, per li quali l’uomo si provoca ad ira. Se l’uomo in cotale consideratione se àe debitamente et ragionevolemente, si è dicto mansueto, che li dispiazzono li vitii. Se elli se àe più in considerare vendetta che non è ragione, si è dicto iracundo. Se meno, si è dicto irascibile. Et però è da considerare quella vendetta delle mal facte cose che è conformevole et consonante alla ragione.

D’arroganza nasce ira in due modi. L’uno ira simplice, o vero dispecta, che è quando l’arrogante vede uno dal quale elli non fu mai offeso, et reputalo nulla, et di neuno valore. L’altro, ira contumeliosa, la quale è contra coloro ch’ ànno alcuna volta offeso. Et questa ira àe appetito di vendetta senza alcuna caritade. Et però che questa arroganza parte l’uomo da amore di caritade, si è un dispiacere di Dio. Contra l’ira sono più rimedii, sì come il suenzo, la consideratione della passione di Christo et la divina compensatione, la quale le fatiche che li huomeni ànno qui, et le tribulatione dispensa alli figl[i]uoli suoi come a lui pare che si convegna. Et considerare la utilitade ch’àe la tribulatione se patientemente si soffera, così qui come ne l’altra vita. Considerare li proprii difecti e ’l fine nostro, cioè la morte.

[103] L’acqua, et cetera, era più nera ch’ella non era di colore perso.

[104] et noi, in compagnia de l’onde bige, cioè della corrente di quella acqua.

[106] In la palude va, et cetera; [108] piagge grige, cio/(p. 39b)è brune.

[109] Et io che di mirar mi stava inteso, et cetera. Qui discrive delli iracundi et delle loro pene.

[115] Lo buon maestro disse: figl[i]o or vedi, et cetera. Virgilio palesa chi sono coloro che si dimostrano fangosi et che si percuotono.

[117] et ancho vo che tu per certo credi, et cetera. Dice Virgilio che sotto l’acqua nel limo della palude sono li accidiosi. Accidia si è fastidio et tedio d’animo. Le spetie di questo vitio sono queste: tepiditate, mollezza, sonnolenza, otiositade, tardezza, indugio, negligenza, imperfectione o non perseveranza, stracuranza, dissolutione, pigritia, non devotione, tristitia, fastidio di vita, disperatione. Le medicine contra questa infirmitate sono spetialmente .viii. La prima si è d’esser occupato dintorno a molte cose; la .ii. si è la consideratione della futura pena. La .iii. si è la consideratione de l’ eterno merito di colui che bene corre in questa vita. La .iiii. si è la compagnia de’ buoni; la .v. si è l’exemplo del veloce et non pigro. Onde dice di lui il propheta: "Ma allegrossi come’l gigante a correre la via". La .vi. si è la consideratione de’ pericoli nelli quali noi siamo qui, che continuo è posta la secure a piede de l’albero ad esser tagliato quando al Criatore piacerà. La .vii. si è quello che ne amaestra Idio .viii. capitolo del Levitico , dove dice: "Il fuoco ne l’altare", et cetera. L’octava et la soprana si è la gratia di Dio.

[121] ficti nel limo de così tristo fumo et cetera. Descrive loro sito et loro hymno.

[124] Or ci attristiamo della belletta negra et cetera. Qui discrive l’auctore il canto di questi accidiosi il quale era cotale: "Noi peccatori ficti nel letame di così tristo fumo, come è quello de l’accidia, fum[m]o ne l’aere dolze la quale s’allegra per la luce del sole, cioè nel mondo, accidiosi. Ora qui ci attristiamo in questa belletta negra di Stige. Et dice che questa loro canzone si diceano in gola per l’acqua del palude che non lasciava loro parlare scorto.

[127] Così girammo della lorda pozza, et cetera. Segue il poema scrivendo loro camino //(p. 40 a) ch’era tra la ripa e ’l padule, et dice che così andaro infino a tanto ch’elli giunsero a piede della torre de sopra la porta di Dite, della quale si tracta nel seguente capitulo.
 

 
APPARATO CRITICO
NOTA BIBLIOGRAFICA
Vat. Barb. 4103
claudia di fonzo ©
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